Pinocchio (o l’arte di lasciar andare)

La recente uscita del film di animazione PINOCCHIO, del regista Guillermo del Toro, ha attirato la mia attenzione.  Non spetta a me riconoscere e commentare l’indubbia maestria tecnica e la cura de dettagli – rimando, quantomeno, al making of su Netflix.

Mi limiterò qui, oltre che a consigliarne la visione, a rilevare alcuni temi che, tra i molti possibili, mi hanno colpito nell’opera.

Uno tra i temi cardine, mi pare, che percorrono l’intero film è rappresentato dal binomio separazione- individuazione e dal tema della morte – già simbolicamente implicata nel binomio.

Il tema del morire e di come la vita possa continuare per chi resta introduce, in qualche modo, il film, rappresentandone il prologo e una cornice di riferimento. Geppetto perde un figlio e disperatamente lo piange, per anni, inconsolabile, fino a che non prova a scolpire nel legno un burattino che sembra, nelle sue intenzioni, poter diventare il sostituto del bambino perduto. Geppetto, dunque, fa esperienza di una mancata elaborazione del lutto, non solo rifiutandosi di lasciar andare ciò che non può tornare ma cercando di riproporre, attraverso l’espediente del burattino, ciò che è stato – il richiamo, qui, al simbolismo di Frankenstein è evidente. Geppetto, insomma, si aspetta che il burattino sia copia fedele o, quantomeno, tragga ispirazione da Carl – il figlio perduto – ripercorrendone le orme. Salvo che Pinocchio, oltre a non somigliare per niente a Carl, per temperamento, testimoni non solo la discontinuità dal passato ma anche la propria diversità nel presente – diventando, lui che è fatto di legno, incarnazione di una umanità vitale e radicale, alternativa a quella conformista che lo circonda (qui il richiamo al fascismo nel film) che sembra essersi drammaticamente irrigidita.

Pinocchio ribadirà esplicitamente la propria condizione – già chiaro il rivoluzionario senso di libertà che lo caratterizza, a partire dal fatto che si tratti di un burattino ma senza burattinaio. E dirà a Geppetto, a chiare lettere, di non voler diventare altri che sé stesso, senza rannicchiarsi all’ombra di nessuno, nemmeno quella del figlio scomparso – c’è una scena in cui Geppetto e Pinocchio si confrontano su questo, quasi una discussione tra un genitore e un figlio adolescente, quando l’adolescente reclama la propria originalità e non vuole più essere ricondotto al bambino che era (conosciuto dai sui genitori in quanto figlio) ma diventare se stesso e “inconoscibile” agli occhi dei genitori (per una eccedenza di significati e di vita, che lo rende singolare e “sconosciuto” ai propri genitori).

La difficoltà a lasciar andare – così umana – trova in Geppetto un credibile interprete, incarnando il desiderio impossibile di far rivivere ciò che è perduto per sempre. Imparerà, grazie al grillo – figura di impareggiabile ironia – che solo se lasciamo veramente andare ciò che è perduto, potremo ritrovarlo in altre forme. La vita ce lo insegna, se e quando siamo disposti a riconoscere questa semplice verità: se non restiamo attaccati alle forme attraverso cui l’essere si manifesta ma siamo disposti a lasciar andare, potremo ritrovare l’essere in altre forme.

Per continuare ad amare – che è condizione fondamentale alla vita, quantomeno alla vita umana nella sua pienezza – è essenziale lasciar andare ciò che non c’è più, ciò che c’è stato un tempo e non può più essere. E’ un processo doloroso e faticoso. Ma la condizione richiesta per sentirsi degnamente vivi e poter amare ancora consiste nel “fare spazio” e rendersi disponibili alla grazia del nuovo. Questo è, senza dubbio, uno tra i lavori e compiti psichici più faticosi e ricorrenti nella vita: lasciare andare chi abbiamo amato per continuare ad amare, lasciar andare chi ci ha amato per essere amati ancora.

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