Avere cura del tempo. L’estate come soglia interiore

“Il tempo è fuori dai cardini.”
Shakespeare, Amleto

Il tempo che fugge

C’è un momento, all’inizio dell’estate, in cui qualcosa torna a distendersi. Le scuole chiudono, le città un poco si svuotano, le agende iniziano a farsi meno opprimenti, i passi si fanno più indolenti, ribelli forse, attratti dalla prospettiva di un imminente riposo. Ma è proprio in questo spazio dilatato che affiora un sentire più sottile: la percezione che il tempo non sia solo qualcosa che si misura nelle agende, tra gli interstizi degli impegni, ma anche qualcosa che ci abita e nel quale siamo costantemente immersi.

Per molti, questa stagione è associata a ricordi d’infanzia che riaffiorano puntuali e nostalgici, a vacanze andate o da progettare, a corpi che si scoprono, a giornate in cui la luce si allunga per le strade. Ma proprio per questo, l’estate porta con sé anche una dimensione ambivalente: è tempo di luce, certo, ma anche tempo di confronto con ciò che nella luce è rimasto in sospeso. In assenza dei soliti rumori, può emergere un silenzio nuovo.

Può essere, infatti, anche il tempo in cui molte persone si sentono più sole, più confuse e in balia dei propri pensieri. Non necessariamente perché le cose vanno peggio, ma perché, nel largo e lento varco dell’estate, si impossessa di noi con più facilità il dubbio che possano peggiorare.

Il sociologo tedesco Hartmut Rosa, nel suo saggio Accelerazione e alienazione, descrive il tempo contemporaneo come un tempo centrifugo. Un tempo in cui tutto – lavoro, relazioni, formazione, perfino il tempo libero – è sottoposto a una logica di accelerazione, dove velocità e quantità contano più della qualità e della profondità.

Secondo Rosa, questa dinamica produce una forma nuova di sofferenza: l’alienazione temporale. Le persone non si sentono più in sintonia con ciò che fanno, non perché non sia importante, ma perché non riescono a farlo in modo incarnato. C’è uno scollamento tra il tempo vissuto e il tempo richiesto. Si è sempre “in ritardo” rispetto a sé.

Nel lavoro clinico, questo si manifesta con sintomi silenziosi ma pervasivi: ansia diffusa, insonnia, fatica decisionale, senso di inadeguatezza. Non c’è tempo per sentire, e quando finalmente ci sarebbe – come d’estate – non sappiamo più come farlo.

Il racconto come medicina del tempo

Dal punto di vista psicodinamico, il tempo non è mai neutro. È l’impasto stesso dell’identità. È attraverso il tempo che si costruisce la continuità dell’esperienza, che si crea quel filo che unisce passato, presente e futuro in una storia vivibile. Quando il tempo si spezza – per un trauma, per un’accelerazione cronica, per una crisi esistenziale – anche il senso di sé si frammenta.

La psicologia narrativa ci ricorda che non siamo fatti solo di eventi, ma principalmente dei racconti che ne facciamo. E questi racconti hanno bisogno di pause, di svolte, di riletture. L’estate, se colta in questa chiave, può essere un laboratorio di ricomposizione. Un tempo lento per ascoltare ciò che si muove sotto la superficie, per dare nome alle emozioni, per rileggere ciò che è accaduto con uno sguardo più gentile.

Ogni volta che qualcuno riesce a raccontarsi in modo nuovo – in terapia, in un diario, in una conversazione autentica – sta curando la propria temporalità interna. Sta ricostruendo un ponte tra le sue parti disperse. Sta dicendo, anche senza saperlo: “questa è la mia storia, e posso portarla con me.”

Il tempo contemplativo: sottrarre per ritrovarsi

Le pratiche contemplative – come la mindfulness, la meditazione camminata o la semplice attenzione al respiro – sono forme di ritorno al tempo vivente. Non un tempo misurabile, ma un tempo esperienziale, che si espande o si contrae in base alla qualità della nostra presenza.

Sedersi in silenzio per dieci minuti non cambia il mondo. Ma cambia la postura interiore con cui lo abitiamo. In quei minuti, ci si allena a stare, a non fare, a non reagire. È una forma sottile ma potentissima di libertà: non essere più schiavi dell’urgenza.

E non è solo una tecnica. È una disposizione. Una scelta di essere lì dove siamo, con quello che c’è, anche se imperfetto. L’estate – per chi riesce a sottrarsi alla pressione del “fare tutto” – può essere un terreno fertile per coltivare questo ascolto.

Il tempo, oggi, è una questione clinica, culturale, spirituale. E l’estate – nella sua sospensione apparente – può diventare una possibilità. Non serve andare lontano. Basta iniziare ad abitare il tempo come un alleato, non come un nemico. Forse allora, più che cercare di riempire ogni vuoto, si tratta di imparare a sostenerlo. Di lasciare che il tempo smetta di essere solo misura o urgenza, e torni a essere ritmo, ascolto, respiro. In un’epoca che teme il rallentamento, la pausa può apparire come un’anomalia. Ma è proprio in queste fenditure, in questi margini silenziosi, che qualcosa comincia a prendere forma.

Dunque: non si tratta di aggiungere un nuovo compito alla lista, ma di riconoscere l’importanza di ciò che resta tra le righe. Nel cuore dell’estate, con le sue giornate dilatate e alcune notti più fragili, si apre uno spazio possibile. Un tempo che non chiede prestazioni, ma presenza. Che non giudica, ma custodisce. Un tempo che, senza far rumore, ricorda che siamo vivi.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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