La retta parola: abitare il mondo con sobrietà, mitezza ed esattezza

In occasione del Vesak*, Alessandro Baricco ha offerto alla Fabbrica del Vapore di Milano una riflessione gentile e potente sulla “retta parola”, uno degli otto passi del Nobile Ottuplice Sentiero buddhista. Desidero riprendere qui alcuni concetti, poiché oggi, praticare la retta parola sembra una necessità non solo di tipo spirituale ma relazionale e politica.

La parola come atto di relazione

La parola retta è uno dei precetti dell’Ottuplice Sentiero del Buddha e indica l’impegno a usare il linguaggio in modo etico, consapevole e compassionevole.
Parlare in modo retto significa evitare la menzogna, la calunnia, le parole dure o violente, e il parlare futile o superficiale.
Non si tratta solo di ciò che si dice, ma di come, quando e perché lo si dice.

Parlare rettamente significa quindi:

  • dire la verità con gentilezza,
  • usare le parole per unire e non per dividere,
  • non ferire,
  • e scegliere il silenzio quando le parole non portano beneficio.

La parola retta è una pratica di presenza e responsabilità relazionale: ogni parola è un atto, capace di generare sofferenza o liberazione

Parlare è un gesto generativo. Ogni volta che diciamo qualcosa, entriamo in relazione: con noi stessi, con l’altro, con il mondo. In tempi dominati da velocità e incertezza e da narrazioni collettive ispirate alla competizione, riscoprire la “retta parola” non è solo un esercizio spirituale, ma un gesto di resistenza e di cura. È un invito a valorizzare e coltivare ciò che ci connette.

Baricco, nel suo intervento, suggerisce quattro modi di intendere la retta parola. Vorrei qui riprenderli, rilanciarli come strumenti per una vita etica e complessa.

1. Sobrietà: il silenzio prima della parola

Baricco ci invita a fermarci, prima di parlare, ad ascoltare “il vuoto che riempie il cavo delle parole”. È una sobrietà che non toglie, ma prepara. Come il respiro prima di un gesto. La sobrietà è un atto di attribuzione di valore, non di sottrazione, contrariamente a come potrebbe venire inteso.

La sobrietà diventa capacità di fare spazio all’altro, alle idee, al silenzio, alle possibilità di vedere diversamente. Parola sobria è parola che misura, si misura in relazione all’altro.

Nel lavoro psicologico, la sobrietà è il rispetto necessario dei vissuti e del processo che si sta svolgendo, rispetto del tempo necessario a elaborare, comprendere, accogliere. Talvolta è necessario arrestare l’incedere di un discorso per respirare, poter pensare, riaprire lo sguardo a ciò che una convinzione o una emozione ci impediscono di vedere.

La sobrietà è darsi tempo. Di non capire, di non saper che fare. Significa non accanirsi per sciogliere un nodo ma imparare a stare sulla soglia, laddove, talvolta, se si rimane fedeli a una domanda, si intravedono risposte.

2. Mitezza: parole che non vogliono vincere

Mitezza non è debolezza, ma forza gentile. È dire senza imporre, proporre senza dominare. È l’opposto della retorica, del dibattito come gara, cercando di spuntarla, arrivare per primi, uscirne con una sentenza a proprio favore, sentirsi dalla parte della ragione.

Nella mitezza la parola smette di essere un’arma utilizzata per vincere, per convincere ma diventa un dono che si mette in circolo perché anche le idee ci sono state date in prestito, e i pensieri, pensati da altri, che troppo spesso crediamo di nostra proprietà. La mitezza serve a incontrare. Enrico Ghezzi si spingeva a dire che la comunicazione dovrebbe essere amore, perché se non è amore diventa pubblicità.

Nella clinica, impariamo che le parole più trasformative non sono quelle brillanti, ma quelle miti, pronunciate senza sovrastare, per far circolare idee, fiducia e mettere in moto processi auto riparativi. La parola mite si affianca e accompagna, dà il suo contributo consapevole della propria finitezza. La mitezza fa spazio perché non è arrogante; la parola mite è quella evocata da Whitman quando scrive che “il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso”. Si tratta di un verso, appunto, non dell’opera intera. La parola mite conosce la sua impotenza, ed è questa la sua potenza.

3. Esattezza: parole che abitano il loro posto

Scegliere bene le parole significa rispettare la realtà. L’esattezza non è rigidità ma una forma di amore. Le parole non sono intercambiabili: ognuna ha un suono, una sua forma e bellezza, una storia, un peso. Sciascia scrisse che le parole non sono come i cani, ché si può fischiare per farli tornare indietro. Avere cura di ciò che diciamo – e pensiamo, prima ancora – è un atto di responsabilità, un atto di civiltà. L’esattezza a volte è uno stato di grazia. Nella maggior parte del tempo viviamo di parole inesatte – in effetti la parola lo è per definizione, la parola è imperfetta a dire perché può sfiorare la vita ma non l’afferra, come ci ricorda Carlo Cecchi in Morte di un matematico napoletano. Ma, quantomeno, la tensione etica può diventare quella di tentare di avvicinarsi a una parola esatta, che non ha bisogno di integrazioni e note a margine, una parola che una volta detta, abbia la solidità e la stabilità per non doverci tornare ancora sopra.

Nelle relazioni affettive, spesso usiamo parole per difenderci o per attaccare. L’esattezza è il contrario del pressapochismo emotivo: è imparare a dire “ho paura” invece di “sei sempre il solito”, o “mi manca qualcosa” invece di “non vali niente”. Le parole giuste non evitano il conflitto, lo rendono possibile e generativo.

4. Dialogo interiore: la prima forma di relazione

Infine, Baricco ci invita a parlare con noi stessi. Non solo a scrivere diari, ma a sviluppare una qualità dialogica interiore. Come ci parliamo? Con giudizio o con comprensione? Con fretta o con presenza?

Non pensiamo al dialogo interiore – di cui non siamo spesso consapevoli – come una forma di relazione. Ma lo è, ed è la relazione più duratura che, forse, probabilmente, saremo in grado di intrattenere nell’arco di una vita. L’invito di Baricco suona come un invito profondamente coerente rispetto alla filosofia del buddhismo: praticare la compassione significa anzitutto essere compassionevoli con sé, accogliere le proprie parti fragili – che poi, solo se accolte, potranno eventualmente evolvere -.

Quando impariamo a rivolgerci a noi stessi con mitezza e sobrietà, anche il nostro modo di stare nel mondo cambia. E questo è il primo atto politico, va detto. Cambiare il mondo non è plausibile se non a partire da un cambio di tonalità e prospettiva nel proprio dialogo interiore. Richiede pazienza, fiducia.

Per un’etica relazionale della parola

Questi quattro gesti – sobrietà, mitezza, esattezza, dialogo interiore – non sono solo virtù spirituali. Sono la grammatica di una convivenza possibile – e, mi pare oggi, dell’unico futuro possibile. Ci aiutano a stare nel mondo in modo non predatorio, a costruire relazioni che non siano solo funzionali ma anche belle, eque, durevoli.

In un’epoca di parole irresponsabili e comunicazioni rapide, abitare la parola con consapevolezza è un primo, fondamentale atto etico. È scegliere di vivere la relazione come uno spazio sacro, dove ogni parola può essere ponte o muro. E scegliere, ogni giorno, di costruire ponti.

*Vesak, noto anche come Visākha Pūjā o festa del Buddha, è la più importante festività del buddhismo.

Si commemorano i tre eventi principali della vita del Buddha Siddhartha Gautama:

  1. La nascita,
  2. L’illuminazione (il risveglio spirituale sotto l’albero della Bodhi),
  3. Il parinirvāṇa (la morte fisica e l’ingresso definitivo nel nirvana).

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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