L’arte difficile della sobrietà

In un tempo che confonde il valore con la visibilità, l’urgenza con l’importanza, la sobrietà può sembrare una virtù dimenticata, un relitto di un passato austero. Eppure, in controluce, emerge oggi come un gesto radicale, una forma di resistenza silenziosa contro l’invadenza, la saturazione, l’eccesso. Sobrietà non come rinuncia, ma come capacità di misura, come spesso ha ribaduto José «Pepe» Mujica. Non come assenza, ma come spazio. Uno spazio che custodisce, protegge, permette.

Nella prospettiva psicodinamica, la sobrietà si lega al tema del contenimento. Secondo Bion, la mente è capace di trasformare gli elementi beta, grezzi e confusi, in pensieri metabolizzabili solo se è presente una funzione contenitiva, un apparato per pensare i pensieri. La sobrietà, in questo senso, è il gesto interno che si trattiene dall’agire impulsivo, che resiste alla compulsione, che consente alla mente di pensare.

La mindfulness, da parte sua, insegna a osservare senza reagire: a notare ciò che emerge senza aggiungere narrazione, senza giudizio. Una mente sobria è una mente che sa stare. Che lascia spazio, che non si precipita a saturare il vuoto. Il training della Compassion Focused Therapy (CFT) arricchisce questa postura aggiungendo la dimensione dell’auto-accoglienza: si tratta non solo di contenere, ma di farlo con gentilezza, senza durezza, senza idealizzazione.

Coltivare la sobrietà nella relazione con sé significa imparare a distinguere tra ciò che è necessario e ciò che è compensatorio, tra ciò che nasce da un bisogno reale e ciò che risponde a uno schema automatico. Significa imparare a stare con il desiderio senza doverlo soddisfare subito. A sentire senza dover agire. A scegliere le parole interne con cura, come si farebbe in una lettera destinata a qualcuno che si ama.

Sobrietà relazionale: pudore, distanza e presenza

Winnicott ci ha insegnato che un bambino ha bisogno di una madre sufficientemente buona, capace di essere presente senza essere invasiva. Allo stesso modo, le relazioni adulte richiedono una capacità di presenza discreta, di ascolto non intrusivo, di rispetto dei tempi dell’altro. La sobrietà relazionale è il contrario della colonizzazione emotiva: è uno spazio che lascia spazio.

In epoca digitale, la sobrietà diventa ancora più urgente. Siamo immersi in un flusso continuo di parole, immagini, notifiche. La disponibilità permanente viene scambiata per cura, l’accesso illimitato per intimità. Ma la vera prossimità, ci ricorda Levinas, si fonda su un rispetto radicale dell’alterità. Sobrietà è sapere tacere, quando è il tempo del silenzio. È saper aspettare, quando l’altro ha bisogno di stare.

La sobrietà relazionale si nutre di pudore: una parola spesso fraintesa come distacco ma che in realtà designa una delicatezza nell’approccio, un senso del limite come forma di cura. In terapia, sappiamo quanto il troppo dire possa chiudere, mentre una parola scelta, una pausa, una presenza senza urgenza possano aprire varchi profondi.

La sobrietà delle parole

In un’epoca di iperproduzione linguistica, la parola è a rischio inflazione. Parlare diventa spesso un atto automatico, compulsivo, performativo.

La sobrietà linguistica non è silenzio imposto, ma parola meditata. È la capacità di parlare con misura, con attenzione, con responsabilità. In terapia, come nella vita, le parole sono strumenti di costruzione o di distruzione. La sobrietà è ciò che ci impedisce di ferire senza volerlo, di sovraccaricare l’altro del nostro mondo, di perderci nel rumore.

Imparare a scegliere le parole è anche imparare a dire meno. A lasciare margini di ambiguità, a rispettare i tempi interpretativi dell’altro. Come insegna la comunicazione mindful, parlare con consapevolezza è un atto etico, è assumersi la responsabilità di ciò che si genera nell’incontro.

Sobrietà economica ed ecologica: rallentare, ridurre, rispettare

Non possiamo ignorare che la sobrietà, oggi, ha una dimensione materiale ineludibile. Il nostro modello economico si fonda sull’espansione illimitata, sul consumo, sull’estrazione di risorse naturali e umane. Ma un sistema che non conosce il limite è, per definizione, destinato al collasso.

Ivan Illich, nei suoi scritti sulla convivialità, metteva in guardia contro la crescita che distrugge la qualità della vita. Proponeva una sobrietà felice, fondata sull’autolimitazione e sull’uso condiviso delle risorse. In termini psicologici, potremmo dire: una vita basata sul senso, non sull’accumulo. La CFT ci ricorda che le motivazioni compassionevoli sono evolutivamente orientate alla cura dell’altro, al benessere comune, non al profitto individuale.

Essere sobri, oggi, significa fare pace con il concetto di limite. Accettare di non avere tutto, di non essere tutto, di non fare tutto. È un atto di libertà e non di costrizione. Significa restituire dignità alla lentezza, al silenzio, all’invisibile. E soprattutto, significa restituire al pianeta e agli altri la possibilità di respirare.

Filosofia della misura: il tempo del non agire

Nel pensiero orientale, in particolare nel taoismo, esiste il concetto di wu wei: agire senza forzare, lasciare che le cose seguano il loro corso. La sobrietà ha molto in comune con questa filosofia: è la scelta di non intervenire sempre, di non accelerare, di non ottimizzare. È un atto di fiducia nei processi.

Anche Simone Weil, mistica e filosofa del Novecento, parlava della “attenzione silenziosa” come forma più alta dell’amore. Una presenza che non vuole nulla, che non chiede, che non invade. La sobrietà è questa attenzione: un tempo che accoglie, una sospensione che permette.

Byung-Chul Han, nella sua analisi della società della stanchezza, ci mostra come l’eccesso di prestazione ci renda esausti, depressi, alienati. La sobrietà, allora, può diventare una cura per l’anima contemporanea: un ritiro senza fuga, una distanza che guarisce, una forma gentile di opposizione.

La sobrietà come atto d’amore

La sobrietà, intesa come misura e cura, non è una virtù triste. Al contrario: è una forma di amore maturo. Amore per sé, che non ha bisogno di eccessi per sentirsi vivo. Amore per l’altro, che non invade. Amore per il mondo, che non sfrutta.

In un’epoca che ci spinge a occupare, dichiarare, produrre, la sobrietà è un gesto rivoluzionario. Lascia spazio. Lascia tempo. Lascia essere. E in questo spazio, forse, possiamo ritrovare il senso profondo dell’esistere.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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