
Non è una serie di facile visione, Adolescence. Ed è un pregio.
Anzitutto, per una precisa e sapiente scelta estetica – qui gioca, purtroppo, un ruolo fondamentale il fatto che ci siamo disabituati a considerare il cinema un linguaggio. L’estetica e i racconti che ci circondano non hanno spesso l’obiettivo di riflettere sulla realtà, indagarla, rappresentarne aspetti di verità – come un’opera dovrebbe fare – ma piuttosto solo l’obiettivo dell’intrattenimento e della distrazione, imponendoci lo stesso gesto e approccio dello scrolling sugli smartphone, lungo una superficie che non chiede approfondimenti ma solo un movimento perpetuo senza profondità e pensiero.
Ci siamo quindi disabituati a “chiedere” ai registi e agli autori di avere ed esprimere un’idea di cinema e di mondo attraverso le loro opere – e, azzardo, di conseguenza, quando questa profondità non è premessa di un’opera, dovremmo abdicare e non concedere il prezioso tempo delle nostre vite, ma è il mio punto di vista.
La serie Adolescence non è facile anche sul piano dei contenuti, non perché racconti qualcosa di mai visto, ma perché lo fa senza allontanarsene, esponendo gli spettatori e se stessa ad uno sguardo brutalmente sincero, che ho molto apprezzato: interpreti molto bravi e scelte di scrittura non retoriche – dai dialoghi alla direzione degli attori, la scelta mi sembra di non porre filtri né retoriche conclusioni ma solo di porre alcune questioni centrali, in modo generoso e senza filtri. Ovviamente, non ignoro il fatto che oltre ad essere un’opera si tratta anche di un’operazione – commerciale – ma questo è inevitabile e non sottrae verità e potenza alla serie.
Quello che accade sullo schermo – un fatto di cronaca che coinvolge un ragazzo inglese di tredici anni – ci interpella, perché ci riguarda. Non solo come educatori, genitori o terapeuti, ma come adulti coinvolti, in modi più o meno diretti, in un contesto che sembra aver perso coscienza di cosa voglia dire crescere e abbia smarrito le coordinate fondamentali per accompagnare chi cresce.
La trama prende avvio dall’arresto di Jamie Miller, un adolescente accusato dell’omicidio di una coetanea. Da qui si dipana un racconto scandito in 4 episodi, ognuno costruito come un’unica lunga sequenza, senza stacchi di montaggio. Il dispositivo del piano sequenza non è solo una scelta stilistica: è un modo per collocare lo spettatore dentro e di fronte al flusso degli eventi, nel suo movimento costante e irreversibile – che poi è la dimensione del tempo -, si è testimoni di un evento che travolge senza spiegazioni.
Si potrebbero scrivere molte cose – e molte sono state scritte. Mi limiterò a riferire cosa mi ha colpito maggiormente.
SPOILER ALERT: il testo contiene riferimenti a snodi narrativi centrali e al finale della serie. Se si desidera guardare la serie senza anticipazioni, è il momento di sospendere la lettura.
La scena primaria del trauma
Il primo episodio si apre con l’irruzione della polizia nella casa di Jamie. È una scena che vale come cornice simbolica dell’intera serie. L’ordine familiare viene infranto in modo improvviso e inesorabile, con una violenza formale ma inevitabile. Quel momento racconta più di un semplice arresto: racconta la rottura di un sistema, la frattura del legame fiduciario, lo smarrimento profondo di fronte all’impossibilità di dare un senso.
La famiglia reagisce inizialmente come spesso accade di fronte al trauma: stupore e incredulità, irrigidimento e negazione. I dialoghi sono sospesi, i gesti automatizzati, le emozioni non ancora accessibili. È una sequenza gestita con grande finezza anche nella direzione degli attori: la madre resta muta, lo sguardo perso; il padre cerca risposte dove non ci sono, e intanto si irrigidisce nel bisogno di controllo. Non è ancora tempo per sentire: è il tempo della difesa.
Il momento in cui viene mostrato, al termine dell’interrogatorio del ragazzo, il video dell’omicidio – ripreso da una telecamera di sorveglianza – rappresenta una frattura narrativa e psicologica. Lo spettatore, insieme ai personaggi, si confronta con l’evidenza del fatto. Non c’è più spazio per la negazione. La recitazione dell’attore che interpreta il padre, in questa scena, è asciutta, credibile, senza eccessi, interiorizzata: il gelo, il collasso interno, la paralisi emotiva e il paradossale bisogno di negare e allontanarsi e avvicinarsi al figlio sono resi senza mai cedere alla retorica del dramma. Qui si apre, anche per lo spettatore, un’altra dimensione: quella del dolore che chiede ascolto, ma che non ha ancora parole.
La scuola: adulti esausti, adolescenti senza contenitori
Un episodio interamente ambientato nella scuola di Jamie rappresenta un altro punto di snodo cruciale. Qui la serie sposta il focus dal nucleo familiare al contesto educativo. La macchina da presa si muove con apparente fluidità tra corridoi, aule, spazi comuni, ma ciò che mostra è tutt’altro che ordinato: una quotidianità scolastica dove le regole sembrano fragili, gli adulti in affanno e i ragazzi lasciati a se stessi, preda degli impulsi.
L’assenza di contenimento è il tratto dominante: contenimento emotivo, relazionale, simbolico. I docenti appaiono spaesati, spesso rigidi, talvolta aggressivi o svalutanti. I ragazzi si muovono in piccoli gruppi che ricordano microcosmi scollegati, a tratti caotici, incapaci di autoregolarsi. L’episodio restituisce con fedeltà inquietante una realtà che chi lavora nel mondo dell’educazione conosce bene: la fatica crescente degli adulti a rappresentare una funzione di contenitore e specchio. E insieme, la difficoltà dei giovani a trovare un senso di orientamento affettivo.
La critica all’uso pervasivo dei social media è ovviamente presente, realistica, mai didascalica. La serie suggerisce – con intelligenza – che ciò che preoccupa non è lo strumento in sé, ma l’assenza di adulti capaci di regolare, accompagnare, dare senso. La violenza che emerge non è gratuita, ma il linguaggio estremo di una sofferenza che non ha trovato accoglienza e senso, accompagnamento e significato.
Famiglia e trauma: le fasi del processo psichico
Un altro episodio, forse il più emblematico dal punto di vista clinico, si apre con l’imbrattamento del furgone del padre. È un gesto simbolico, che rompe una routine già logora. Da lì in poi si snoda una puntata che esplora in profondità le dinamiche familiari. I dialoghi iniziali sono vuoti, sopra le righe, con una recitazione volutamente ridondante: battute meccaniche, affettività distaccata, un sentire che non aderisce alle parole. I membri della famiglia sembrano bloccati in una asfittica e tesa messa in scena, in cui si finge una normalità ormai perduta.
Questa distanza tra linguaggio e verità produce nello spettatore un disagio crescente. E proprio in questo scarto si colloca il movimento psichico che la serie riesce a restituire con precisione: il passaggio dalla negazione alla rabbia, e infine, all’accettazione. E’ il padre il vettore di questa traiettoria: dapprima, in modo reattivo, nel parcheggio esterno di una catena di negozi per la vendita di materiali edili, si accorge di essere seguito da alcuni ragazzi – gli autori dell’imbrattamento – e mette le mani addosso a uno di questi, minacciandolo. Pur esercitando forza muscolare, è la rappresentazione dell’impotenza e della frustrazione, che credo ben rappresentino, in una versione certamente eclatante e più estrema, un vissuto di molti adulti.
Ma sarà Jamie stesso a rompere il gioco della negazione – avendo evidentemente svolto un suo percorso di maturazione -, con una telefonata al padre che avviene mentre è in macchina, insieme alla madre e alla sorella. Senza drammatizzazioni, comunica la sua decisione di cambiare la deposizione e dichiararsi colpevole – con la rapidità dello schianto, avviene qualcosa che salda in un unico movimento la fine della messa in scena, l’accettazione della realtà e una possibile e nuova apertura.
Quello scambio di battute a distanza – tanto semplice quanto destabilizzante il fatto che avvenga in pochi secondi e attraverso una telefonata – è il momento in cui si torna a respirare.
La verità non salva, ma libera. Non protegge dal dolore, ma lo rende dicibile. È un passaggio spesso faticoso e lungo, ma necessario: riconoscere ciò che è accaduto per poter tornare a parlarsi e accogliere spiragli di futuro. Non c’è redenzione, ma possibilità.
La scena finale: riparazione e parola
L’ultima scena della serie – quella in cui il padre entra nella stanza del figlio – è forse la più potente, e certamente la più essenziale. Il padre si guarda intorno, lo sguardo dolente, disorientato. Si avvicina al letto, si rannicchia su di sé. Piange in singhiozzi, un pianto soffocato nel cuscino. Poi, prende l’orsacchiotto deposto sul letto, lo ripone sotto le coperte, dando un bacio in fonte. Un gesto potente e disarmato, come potente e disarmata è la verità; quel gesto diventa la rappresentazione di un bene che sopravvive all’orrore indicibile, alla mancanza di senso, di un amore che dura, nonostante tutto, di cui avere cura.
Solo allora, arriva la parola. E la parola può arrivare solo allora, una parola che sappia integrare il passato per provare a muoversi oltre. Non una parola che spiega o giustifica. Non ne esistono, in alcune situazioni. Solo: “Scusa, figliolo…Avrei potuto fare meglio.”
Da qui in poi, il legame ridiventa possibile alle attuali condizioni. Viene lasciato andare – anche se simbolicamente – ciò che è stato, che mai più tornerà – la parola nostalgia deriva dal greco nòstos-àlgos, il dolore del ritorno, poiché non è possibile fare ritorno.
Non è una scena che consola. Ma è una scena che riconsegna dignità al dolore e alla relazione. È una forma di riparazione che non nega l’irreparabile, ma lo accoglie. E proprio per questo, forse, offre un appiglio al futuro.
Conclusione
Adolescence è una serie che chiede tempo di elaborazione, presenza, e una certa disponibilità a non difendersi. Non offre soluzioni né catarsi. Non cerca colpevoli, né redenzioni. Mostra, con onestà e precisione, un tempo della vita – l’adolescenza, certo in una sua declinazione estrema – che non può essere attraversato senza adulti capaci di ascoltare, sostenere, e tollerare la complessità del dolore.
Guardarla è un’esperienza intensa ma anche un’opportunità per interrogarci. Non solo su cosa significhi oggi diventare grandi, ma su cosa significhi essere davvero presenti, come adulti, nella vita di queste ragazze e ragazzi.
AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano
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