
La vita, nel suo respiro profondo, è un’alternanza incessante tra inspirazione ed espirazione, tra movimento di presa e movimento di resa e separazione.
Intorno a noi, nel paesaggio che ci circonda, e dentro di noi, anche per quel che attiene al nostro funzionamento biologico, tutto evolve attraverso questi due movimenti e la separazione sembra caratterizzare gran parte del divenire delle cose: un seme deve staccarsi dal frutto, cadere solo, per poter mettere radici e diventare albero. Le nostre stesse cellule si dividono, si separano l’una dall’altra in una danza continua che chiamiamo crescita. Il primo vagito è il suono della separazione dal grembo materno, un taglio netto che ci inaugura all’esistenza individuale. Poi, i piccoli passi incerti lontano dalla mano sicura: è la separazione che costruisce l’identità, quel delicato allontanarsi per potersi definire, come ci ricorda la psicologia dello sviluppo. L’adolescenza, con le sue tempeste e le sue ribellioni, è un’altra forma di separazione necessaria, un distacco a volte doloroso, ma vitale per spiccare il volo verso l’età adulta. E infine, la separazione ultima, quella della morte, che ci confronta con il mistero del distacco e ci costringe a ridisegnare la mappa della nostra vita senza una presenza fondamentale.
Vorrei considerare qui, tra le altre, una forma peculiare di separazione, la fine di una relazione di coppia significativa. Non è solo la perdita di una persona; è lo sgretolarsi di un mondo. È il silenzio che cala dove prima c’erano parole, è lo spazio vuoto nel letto e in alcune giornate, sono i progetti futuri che si dissolvono per riaggiornarsi e tornare individuali.
Il dolore che ne deriva può essere viscerale, acuto. Può arrivare nella forma di un’onda che travolge, lasciando senza fiato, oppure insinuarsi lentamente come un’umidità fredda tra gli abiti. Si può provare rabbia, un senso di ingiustizia bruciante, o una confusione spaesante. Ci si può sentire falliti, svuotati, terribilmente soli anche in mezzo alla gente. È un dolore che merita ascolto profondo e rispetto, senza sconti, senza giudizi affrettati. Come insegna la mindfulness, non si tratta di scacciare il dolore, ma di imparare a stare seduti accanto ad esso, riconoscendolo per quello che è: la testimonianza di un legame che è stato importante, di un amore che ha significato qualcosa.
Oltre la ricerca di un colpevole
Spesso, nel pieno della sofferenza, la mente cerca disperatamente un colpevole, una causa unica, un errore fatale. Ma la fine di una storia è raramente una linea retta.
A volte è un lento derivare, un allontanarsi impercettibile fino a ritrovarsi su sponde diverse dello stesso fiume. Altre volte è una frattura improvvisa, causata da eventi specifici. Altre ancora, è la presa di coscienza, amara ma necessaria, che le strade individuali non possono più convergere senza sacrificare parti vitali di sé.
Può accadere che rimanere insieme significhi spegnersi lentamente, tradire bisogni profondi emersi con il tempo, o rimanere impigliati in dinamiche che feriscono anziché nutrire. In questi casi, la separazione, per quanto straziante, diventa un atto di coraggio, di onestà verso se stessi e, a volte, anche verso l’altro. Non è un fallimento, ma il riconoscimento che quella specifica forma di unione ha esaurito la sua spinta vitale o evolutiva. Non serve, anche se emotivamente legittimo, nelle prime fasi, cercare un capro espiatorio; serve piuttosto il coraggio di guardare la danza interrotta, di comprendere le dinamiche, i bisogni inascoltati, le ferite reciproche, non per accusare, ma per imparare e, forse, perdonare.
Come si attraversa questo mare in tempesta? Non ci sono mappe precise, ogni viaggio è unico. Ma possiamo equipaggiarci con alcuni strumenti di navigazione interiore:
- Avere cura di sé: Nel momento della frattura, quando ci sentiamo a pezzi, la tentazione è quella di auto-flagellarsi o di erigere muri di finta forza. La self-compassion, come ci ricorda Kristin Neff, è l’invito opposto: è offrirsi una tregua, riconoscere che soffrire è umano, che non siamo soli in questo dolore universale. È parlare a se stessi con la stessa gentilezza che useremmo per un amico caro che sta soffrendo. È accarezzare la propria ferita invece di gettarvi sale sopra. È smettere di chiederci di essere invincibili e permetterci di essere semplicemente, dolorosamente umani.
- Stare con quello che c’è: Quando i pensieri corrono all’indietro verso i ricordi o in avanti verso le paure, la mindfulness ci riporta al presente, all’unico momento che abbiamo davvero. Non cancella il dolore, ma ci aiuta a non esserne completamente sommersi. È come imparare a osservare le onde emotive senza farci trascinare via dalla corrente. È ancorarsi al respiro quando tutto intorno sembra tremare. È notare i pensieri (“sto pensando al passato”, “sto avendo paura del futuro”) senza necessariamente crederci o identificarci totalmente. È essere con la tempesta, senza diventare la tempesta.
- Darsi tempo: La separazione è un lutto a tutti gli effetti. E il lutto ha i suoi tempi, spesso lunghi, tortuosi, fatti di passi avanti e improvvise ricadute. Dobbiamo darci il permesso sacro di attraversare questo tempo, senza fretta, senza confronti. Ci saranno giorni di pianto, giorni di rabbia, giorni di apatia, e forse, lentamente, giorni in cui un raggio di sole sembrerà filtrare di nuovo. Accettare la non linearità di questo processo è fondamentale.
- Cercare un senso: Questa è forse la parte più delicata, che arriva dopo, quando il dolore più acuto inizia a placarsi. Non si tratta di dire “è stato meglio così” in modo sbrigativo. Si tratta di coltivare una domanda interiore, quasi un sussurro: “Cosa può insegnarmi questo dolore? Cosa sto imparando su di me, sui miei bisogni, sui miei confini, sull’amore stesso?”. È qui che possiamo provare a spostare la prospettiva, come suggerito da alcuni approcci esistenziali e spirituali: forse le cose non accadono semplicemente a noi, ma in qualche modo per noi? Non per punirci, ma per offrirci un’opportunità di crescita, di consapevolezza, di trasformazione che altrimenti non avremmo colto. Cercare un senso non nega la sofferenza, ma può renderla più tollerabile e aprirci a intravedere un futuro possibile.
- Condividere e chiedere aiuto: Non siamo isole. Nel momento della separazione, tendere la mano e chiedere aiuto è un atto di grande forza, non di debolezza. Parlare con amici fidati, con familiari che sappiano ascoltare senza giudicare, o intraprendere un percorso di psicoterapia, può essere vitale. Uno spazio terapeutico sicuro permette di esplorare le emozioni complesse, di dare un nome al dolore, di comprendere le dinamiche passate e di iniziare a ricostruire, mattone dopo mattone, un senso di sé e del proprio posto nel mondo.
Separarsi è come attraversare un inverno dell’anima. Inizialmente tutto sembra fermo, freddo, spoglio. Ma come ogni inverno porta in sé la promessa silenziosa della primavera, così ogni fine porta in sé il germe nascosto di un nuovo inizio. Non sarà lo stesso di prima, non saremo gli stessi di prima. La ferita lascerà forse una cicatrice, ma le cicatrici raccontano storie di sopravvivenza, di resilienza.
Non si tratta di cercare una felicità immediata o di forzare un ottimismo ingessato. Si tratta di coltivare una speranza quieta, radicata nella fiducia che la vita continua a scorrere, e che anche dalle crepe più profonde può filtrare la luce. Si tratta di imparare a stare nello spazio vuoto lasciato dalla relazione, scoprendo che non è solo vuoto ma anche possibilità: possibilità di riscoprirsi, di prendersi cura di sé in modi nuovi, di coltivare interessi dimenticati, di costruire nuove connessioni, forse diverse, forse più allineate con chi siamo diventati.
Attraversare una separazione è un cammino arduo, ma può diventare un viaggio di profonda trasformazione. Un viaggio che, se percorso con consapevolezza e gentilezza verso se stessi, può portarci non a dimenticare, ma a integrare l’esperienza e a ritrovare, passo dopo passo, la nostra strada, forse più consapevoli, forse più interi, pronti ad accogliere ciò che la vita ha ancora in serbo per noi.
AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano
- E-mail: alessandrociardi5@gmail.com
- Telefono: 3394226252